Possono comparire
pratic
a m e n t e
o v u n q u e .
Presenze inattese,
perturbanti, come
fantasmi che irrompono
improvvisamente nella concretezza
del nostro mondo, pur senza appartenergli.
Figure incappucciate, solenni, monastiche,
esoteriche, silenziose. Mantelli il cui movimentato
drappeggio è stato congelato nella
fissità di sculture, che pure non sembrano
immobili, bensì colte in posture
ieratiche, come di processioni, preghiere o
rituali misteriosi. Sto parlando dei Guardians
of Time (i Guardiani del Tempo), un
progetto artistico dello scultore austriaco
Manfred Kielnhofer, che lo ha reso noto
praticamente a livello mondiale. Statue
evocative di presenze eterne, che possono
sembrare qui solo di passaggio ma, al contempo,
dare l’idea di trovarsi esattamente
al loro posto, e far sembrare effimero quel
che le circonda. Personaggi senza un corpo,
senza un volto: sono ombre, enigmi.
Eppure, nel loro paradosso, sanno essere
presenze molto più certe, stabili e forti di
chi magari passa loro a fianco per un momento.
Perché spesso le persone di cui
possiamo vedere il volto e il corpo, in realtà,
non si trovano in nessun posto. Caotiche
nubi di preoccupazioni, problemi, ragiona
menti, occhi puntati su un continuo altrove,
che si spostano da un luogo all’altro senza
essere realmente da nessuna parte. Questi
Guardiani, invece, sembrano aver creato
dentro di loro lo spazio per essere, e questo
li rende realmente presenti.
Manfred Kielnhofer, in realtà, non ha
fatto che dare forma – attraverso la sua personale
visione artistica – a un’esigenza, un
bisogno primario che accompagna l’umanità
fin dagli albori della civiltà. Mi riferisco
al sentimento di impermanenza e alla necessità
di percepire una forma di salvaguardia
della propria identità, dell’insieme
delle proprie nozioni, dei propri valori, di
una memoria individuale e collettiva. Un
moto primario dell’animo che è sicuramente
tra i principali responsabili del sorgere
del sentimento religioso, della devozione a
qualcuno o qualcosa che possa preservarci
dall’oblio. Ma se, da un lato, ci si è sempre
ancorati alla speranza che esistano entità,
o metafisiche presenze benevole, disposte
a tutelare i propri fedeli – motu proprio o in
risposta a preghiere e sacrifici di varia natura
– c’è anche chi, fin dai tempi più antichi,
ha deciso di non affidare la propria
memoria soltanto ai numi tutelari, bensì di
agire concretamente per ideare soluzioni
atte a garantire una continuità delle informazioni.
Il bisogno di creare dei ponti generazionali,
di tramandare il proprio sapere
o punto di vista, il frutto delle proprie
esperienze così come la testimonianza dei
propri sentimenti, ha portato, ad esempio,
alla nascita della scrittura. Parallelamente
allo sviluppo prettamente lessicale, grammaticale
e grafico di quest’ultima, tuttavia,
si rivelava necessario sperimentare la longevità
dei diversi tipi di supporto, oltre a
realizzare degli spazi atti alla conservazione
degli scritti. Perché l’aspetto creativo ed
espressivo è solo il primo passo, ma affinché
la scrittura si riveli un efficace metodo
per tramandare la conoscenza bisogna garantire
anche la sua conservazione a lungo
termine. Questo valeva per la scrittura come
sarebbe valso in seguito per i metodi di
trascrizione d’informazioni nati in epoche
successive, ad esempio le registrazioni audio
e video.
Scontrandosi con l’evidenza della
morte fisica (malgrado i tanti, variegati e
fantasiosi tentativi di sconfiggerla che ci
sono stati descritti dal mito e la letteratura)
gli uomini si sono progressivamente resi
conto che, sebbene non avrebbero potuto
preservare se stessi dall’inesorabile passare
del tempo, avrebbero quantomeno potuto
cercare di tramandare ai posteri le acquisizioni
culturali della loro civiltà, che si
trattasse di avanzamento scientifico e tecnologico
o di conquiste sul piano stilistico
e creativo, senza dimenticare le esperienze
di natura interiore come la mistica. Il tentativo
non era certo sinonimo di successo:
è probabilmente incalcolabile la quantità
d’informazioni andate perdute – alcune
delle quali irreparabilmente – con il passare
dei secoli e dei millenni. In parte per
motivi estranei alla volontà umana, come il
semplice logorio, passando per ogni tipo di
calamità naturale, in parte per opera
dell’uomo stesso: quante guerre, dai tempi
più remoti fino ad arrivare ai giorni nostri,
ci hanno mostrato l’inconcepibile violenza
e accanimento della nostra specie nel voler
distruggere, insieme ai nemici, anche il loro
patrimonio culturale ed emotivo?
Ahimè, in genere solo molto, molto
tempo dopo aver distrutto, depredato o sfi-
gurato delle irripetibili manifestazioni di
civiltà, iniziamo a percepirne il vuoto e la
mancanza, a concepire l’assurdità di aver
cancellato ciò che era altro e diverso da noi
per il semplice fatto che non eravamo in
grado di comprenderlo. Perché nel momento
in cui nasce un conflitto, e finché
esso non ha consumato il proprio combustibile
ideologico, il nostro unico interesse
è dimostrare la supremazia di una fazione
sull’altra, la fondatezza di un credo e l’eresia
dell’altro, la superiorità di una razza
sull’altra… allora ci sembra giusto adoperarci
per fare come se tutto ciò che è estraneo,
straniero, sbagliato, contrario, non sia
mai esistito, non si sia mai frapposto tra noi
e il nostro modo di immaginare il mondo.
Poi, quando cessa l’avversione, la foga iconoclasta,
o siamo riusciti nell’intento di
epurare l’elemento discordante, quando
forse noi stessi iniziamo a mutare le nostre
idee, quando cadono i dogmi, si trasformano
i gusti, si rinnovano gli stili e i discorsi
delle nuove generazioni non parlano più la
stessa lingua di quelle che ci lasciamo alle
spalle, allora iniziamo a pentirci, a rimpiangere
ciò che è stato o avrebbe potuto essere.
Perché se il futuro è diventare altro, metamorfosi
incessante, forse è appunto
soltanto allontanandoci da noi stessi (cioè
da come siamo stati) che possiamo iniziare
a comprendere ciò che diverso lo era già
prima. Allora sopraggiunge quel momento
in cui, guardandoci indietro, ci appare più
alieno, esotico e distante quel che eravamo
noi, anziché quel che abbiamo cercato con
ogni mezzo di annichilire poiché esulava
dai nostri paradigmi. E ancora: quando l’allontanarci
da noi stessi è diventato tale da
sentirci ormai privi di punti d’orientamento,
di basi e radici, riscopriamo il gusto nostalgico,
il vintage, il retrò, e tutto ciò che
possa rievocare quel che un tempo avevamo
tanta fretta di superare, di abbandonare,
di soppiantare in nome di novità che
parevano rendere tutto quanto immediatamente
vecchio e obsoleto.
Ma bisogna davvero arrivare a perdere
qualcosa per rendersi conto del suo valore,
come amano dire alcuni? No. Ci sono persone
che, per fortuna, si rendono conto di
ciò che hanno – e del suo valore – nel momento
in cui ce l’hanno. Persone che non
devono aspettare i rimpianti nell’assenza
per rivalutare le gioie della presenza. Sono
appunto queste persone i veri Guardiani di
cui parlavamo inizialmente: coloro che
amano qualcosa e per questo si dedicano
alla sua protezione e conservazione. Questo
vale a vari livelli e può coinvolgere le più
diverse competenze in tutti i campi.
Gli archivi di Ebla, in Siria, dal 2500
circa fino alla distruzione della città, verso
il 2250 a.C., costituiscono la più antica biblioteca
organizzata finora scoperta. Oggigiorno
disponiamo di una tecnologia di
archiviazione lontana anni luce, in termini
quantitativi, da quei primi antichi esempi
di raccolte di testi: basti pensare all’impresa
da guinness dei primati compiuta da
Ibm con la recente presentazione di un’unità
d’archiviazione dalla capacità record
di 120 Petabytes (120 milioni di GB), ovvero
sei volte più capiente del sistema con
cui Facebook archivia i dati dei suoi oltre
750 milioni di utenti. Ma, al di là delle meraviglie
che la tecnologia può compiere,
quegli antichi uomini di Ebla non sono forse
accomunati dalla stessa preoccupazione
e dedizione che spinge i moderni sviluppatori
di dispositivi (sempre meno
analogici e sempre più digitali) a studiare
e creare archivi per salvaguardare la
nostra memoria?
Non è forse la stessa passione a legare
chi, su scala individuale o collettiva,
privata o pubblica, crea raccolte, collezioni,
musei, database, album, diari, registrazioni,
affinché qualcuno, un giorno, si ricordi
di noi, così come dei fantastici doni
che il pianeta ci offre ma che (forse per
stupidità, avarizia o incompetenza) stiamo
depauperando in modo sconsiderato? Sì
perché se preservare informazioni sulla
nostra identità può essere importante, a
maggior ragione lo è cercare di salvaguardare
lo spazio vitale in cui quella stessa
identità ha potuto nascere e formarsi; affinché
l’avanzamento della tecnologia non
rappresenti soltanto uno sfruttamento
sconsiderato delle risorse a nostra disposizione,
bensì uno strumento per prenderci
cura di quelle stesse risorse.
“Le spese militari mondiali hanno superato
il muro dei 1.700 miliardi di dollari e
sono valutati in 1.739 miliardi di dollari, pari
al 2,3% del Pil mondiale” (vita.it), forse
perché il nostro primo pensiero quando
vogliamo sentirci protetti e difesi è quello
delle armi. La legge del più forte. Ma la
tecnologia, dal mio punto di vista, ha realmente
un senso quando non è pensata per
scontrarsi, per distruggere, bensì per diventare
la prima vera Guardiana del nostro
tempo, per dimostrare il nostro amore
per l’umanità e il nostro pianeta. Alla logica
dei fucili e dei carri armati io preferisco
una tecnologia che si distingua per imprese
come la “Fecondazione in vitro e madre
surrogata per salvare la specie del rinoceronte
bianco settentrionale, del quale rimangono
al mondo soltanto due esemplari, due
femmine, in una riserva del Kenya. E’ il tentativo
nel quale sarà coinvolta anche una
azienda italiana, la Avantea di Cremona, insieme
all’istituto IZW di Berlino e al Kenya
Wildlife Service” (ansa.it).
GUARDIANS OF TIME
INTERVISTA A MANFRED KIELNHOFER
Ho avuto l’onore di avere uno scambio
di vedute in merito direttamente con il creatore
di queste opere d’arte intrise di suggestione
e misticismo, ed ecco quali
considerazioni sono emerse dalla nostra
conversazione con Manfred Kielnhofer:
Manfred, stavo riflettendo sul fatto
che i Guardiani richiamino anche l’idea
della vecchiaia, poiché generalmente sono
gli anziani ad essere i custodi della memoria,
in opposizione all’idea di gioventù
che è più legata all’avanzamento e la scoperta.
Ma non può esserci progresso andando
soltanto avanti. L’equilibrio è dato
dal ricordare di guardarsi alle spalle, a ciò
che è passato e che non dev’essere dimenticato.
Cosa ne pensi?
Esatto. Realizzando alcuni Guardiani
come statue di pietra e altri come statue di
luce, ho voluto proprio rappresentare ciò
che viene dal passato e riporta la mente a
epoche antiche (la pietra) e che nella sua
forma luminosa si volge al futuro. Vorrei
che chi osserva i Guardiani non dimenticasse
di pensare positivo e sorridere. In
essi è racchiusa, infatti, l’idea di proteggere
il passato e costruire un bel futuro attraverso
l’arte, l’amore e la libertà.
Infatti un’altra questione che mi sembra
importante far emergere è che un
Guardiano sia tale poiché il suo proposito
è quello di “proteggere”. Se consideriamo
che la vera radice del concetto di protezione
sia l’amore, penso si possa dire che, per
imparare a preservare e proteggere qualcosa,
sia necessario per prima cosa imparare
ad apprezzarla e ad amarla. Questo si
applica anche alla memoria, al passato e
alla sua eredità. I suoi “guardiani” devono
essere persone che sappiano cosa significhi
amare e prendersi cura delle cose. È
un discorso che trova una risonanza nel
tuo lavoro?
Assolutamente. Proteggere e difendere
per amore. L’amore e la famiglia sono
importanti, direi la base di qualunque benessere,
poiché da questi deriva la felicità
che può bilanciare le diverse difficoltà e
avversioni della vita. Ma è necessario in
primo luogo imparare ad amare se stessi
per poter diffondere il proprio amore anche
al prossimo. L’arte per me è innanzitutto
amore e libertà.